La deduzione fiscale delle perdite su crediti
Un profilo spesso sottovalutato o addirittura ignorato nell’ambito del recupero dei crediti aziendali, ed invece molto importante nell’ottica della gestione ottimale del recupero crediti di un’impresa, è quello legato alla deduzione fiscale della perdita.
La normativa tributaria che regolamenta questa materia è notevolmente complessa ed a tratti farraginosa. Tuttavia, un legale avveduto è in grado di far ottenere alle imprese ottimi benefici sotto il profilo tributario, evitando di far gravare sulle stesse ulteriori ed inutili costi legati all’azione giudiziale di recupero dei crediti.
In estrema sintesi, l’art. 101, comma 5, del D.P.R. n. 917/1986 (cd. TUIR) prevede che le imprese possono dedurre dalle imposte sui redditi le perdite su crediti commerciali (che derivano cioè da cessioni di beni e prestazioni di servizi) quando:
a) le perdite risultano da elementi certi e precisi;
b) il debitore è assoggettato a procedure concorsuali.
In tali casi, ai sensi dell’art. 106, comma 2, del TUIR, le perdite sui crediti sono deducibili, con riferimento al valore nominale o di acquisizione dei crediti stessi, limitatamente alla parte che eccede l’ammontare dell’eventuale relativo fondo svalutazione presente in bilancio.
La seconda ipotesi – quella cioè in cui il debitore è assoggettato a procedure concorsuali: fallimento e concordato preventivo in primis – è quella che pone minori problemi: in tal caso infatti la perdita sul credito vantato dall’impresa è automaticamente deducibile nel periodo di imposta in cui il debitore è stato dichiarato fallito, salvo poi registrare una sopravvenienza attiva nel caso (purtroppo abbastanza improbabile) in cui ottenga il recupero di tutto o parte del proprio credito dalla liquidazione e riparto dell’attivo fallimentare.
La prima ipotesi, quella cioè in cui il debitore non sia dichiarato fallito o assoggettato ad altra procedura concorsuale – che è poi quella maggiormente frequente, anche per i limiti alla fallibilità delle imprese introdotti dalla recente legislazione – impone invece una serie di analisi e di valutazioni piuttosto complesse. La finalità della norma fiscale è quella di ammettere la deduzione di perdite su crediti solo se le stesse risultano da elementi documentati, certi e precisi, quindi oggettivi; ciò al fine di evitare che le imprese possano, in modo discrezionale, dedurre perdite su crediti non effettive, al solo fine di ridurre le imposte sui redditi.
Ma quando la perdita sul credito si può considerare certa e quindi può essere dedotta fiscalmente?
Contrariamente a quanto spesso si ritiene, non è sempre necessario esperire inutilmente tutta l’attività di recupero del credito in via giudiziale, fino al pignoramento (infruttuoso), e quindi sostenere i relativi costi (inutili) per avere la possibilità di dedurre fiscalmente la perdita.
In primo luogo, quando l’impresa raggiunge un accordo transattivo con il debitore, e dunque rinunzia a recuperare interamente il proprio credito pur di ottenere l’adempimento spontaneo da parte del debitore ed evitare in tal modo un’azione giudiziale, la differenza negativa che emerge per il creditore a seguito della transazione (cioè la differenza tra il valore iniziale del credito e quello a seguito della transazione) è deducibile come sopravvenienza passiva (se avviene in periodi successivi a quello della formazione del credito) o minor ricavo (se avviene nello stesso anno di formazione del credito).
In secondo luogo, come previsto dal recente Decreto Sviluppo, vi sono delle ipotesi in cui la perdita sul credito può essere automaticamente dedotta dalle imposte, senza che sia necessario svolgere alcuna attività di recupero (come nel caso in cui il debitore sia assoggettato a procedure concorsuali). Si tratta dei seguenti casi:
a) crediti di importo inferiore a 2.500,00 Euro, scaduti da oltre 6 mesi;
b) per le imprese che conseguono un volume d’affari o ricavi superiori a 150 milioni di Euro: creditidi importo inferiore a 5.000,00 Euro, scaduti da oltre 6 mesi;
c) crediti prescritti, di qualunque importo (ad esempio perché sono trascorsi oltre 10 anni, senza che nel frattempo il debitore sia stato messo in mora).
In tutti questi casi, intraprendere un’azione giudiziale di recupero è sconsigliabile, in quanto espone l’impresa ad ulteriori costi inutili; ciò a meno che le risultanze dell’analisi di solvibilità del debitore siano positive, e dunque sia ragionevolmente prevedibile che il credito verrà recuperato in tutto o in parte.
Per tutte le altre ipotesi (cioè per crediti superiori agli importi prima citati), qualora l’analisi preventiva di solvibilità del debitore sia negativa – e quindi sia improbabile ottenere il recupero del credito, data l’assenza di beni utilmente pignorabili o la presenza di iscrizioni o trascrizioni pregiudizievoli – la documentazione attestante la improbabilità di ottenere il soddisfacimento del credito, consistente nel report informativo e nel parere del legale circa le possibilità effettive di recupero del credito, può essere sufficiente ai fini della deducibilità fiscale, in tal modo evitando all’impresa di dover sostenere inutili costi legati ad un’azione legale di recupero del credito che sarà con ogni probabilità infruttuosa.
Ciò sempre che il credito da recuperare non sia abbastanza elevato; in tal caso infatti, l’Amministrazione Finanziaria è orientata a ritenere che sia comunque necessario esperire il tentativo di recupero del credito in via giudiziaria, fino al pignoramento (che sarà verosimilmente negativo) per considerare certa la perdita e quindi permetterne la relativa deduzione fiscale. In ogni caso, tale aspetto dovrà essere attentamente valutato caso per caso dal legale incaricato dall’impresa, in relazione alle risultanze dell’analisi di solvibilità e all’importo del credito insoluto.
Avv. Valerio Pandolfini
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